In un mondo dove ogni conflitto esiste solo se ha visibilità, la guerra in Yemen è diventata il simbolo perfetto del disinteresse selettivo dell’Occidente. Dal 2015, il Paese più povero della Penisola Arabica è stato trasformato in un campo di battaglia per procura, dove si scontrano ambizioni regionali, interessi geopolitici e ipocrisie internazionali. Arabia Saudita e Emirati Arabi hanno guidato una coalizione militare sostenuta da Stati Uniti e Regno Unito contro i ribelli Houthi, sostenuti dall’Iran. Il risultato è stato un disastro umanitario che prosegue da quasi dieci anni. Ma oggi, semplicemente, non se ne parla più.
Eppure in Yemen si continua a morire. Si muore sotto le bombe saudite, nei raid americani, nei droni britannici. Si muore di fame, di sete, di assenza di cure. Si muore in silenzio. I bambini, in particolare, sono le vittime più numerose e dimenticate. Secondo i dati delle Nazioni Unite, dal 2015 oltre 10.000 bambini sono stati uccisi o mutilati. Decine di scuole e ospedali sono stati distrutti. Oltre 17 milioni di persone sono in condizioni di insicurezza alimentare. Ma questa non è una carestia naturale: è una fame prodotta dalla guerra, scientificamente pianificata, alimentata da blocchi navali e embargo umanitario.
Nelle ultime settimane, mentre i riflettori erano puntati su Gaza, sull’Ucraina o su Teheran, gli Stati Uniti hanno intensificato la campagna aerea contro lo Yemen con il pretesto di proteggere le rotte nel Mar Rosso. Oltre mille bombardamenti in pochi mesi. Interi quartieri colpiti. Famiglie annientate. Raid su Sana’a, su porti civili, su centri di accoglienza per migranti. In uno solo di questi attacchi, a Saada, sono morte oltre sessanta persone. Nessuna breaking news. Nessuna dichiarazione di cordoglio. Nessuna indignazione social.
Il tutto, mentre si continua a vendere armi a Riyadh e Abu Dhabi, e si legittima una coalizione che ha violato sistematicamente il diritto internazionale. Anche quando colpiva ospedali, anche quando lasciava milioni di civili senz’acqua o senza accesso ai vaccini. Anche quando affamava intere province. Le potenze occidentali, in nome della “stabilità regionale”, hanno preferito chiudere gli occhi. E oggi la guerra dello Yemen è diventata una ferita aperta che nessuno vuole guardare.
Si parla di tregua, di dialoghi indiretti, di sospensione delle operazioni. Ma non è pace. È solo stanchezza. Una tregua precaria, continuamente violata da raid israeliani o da nuovi bombardamenti camuffati da operazioni antiterrorismo. Nel frattempo, gli Houthi hanno alzato il livello dello scontro. Hanno colpito navi nel Mar Rosso, hanno dichiarato sostegno alla Palestina, si sono affermati come forza regionale. Ma ogni loro mossa, anche politica, viene tradotta come pretesto per nuovi attacchi.
Il risultato è che il conflitto si è incancrenito, cronicizzato, normalizzato. Nessuno chiede più sanzioni contro chi bombarda i civili. Nessuno evoca tribunali internazionali. Non c’è memoria per le vittime. E nessuna accountability per gli aggressori. È una guerra fatta in nome nostro, con le nostre armi, con i nostri silenzi.
Lo Yemen non è un fronte secondario. È il laboratorio dell’impunità globale. È la prova che, quando una guerra non serve più alla propaganda o non riguarda alleati strategici, viene semplicemente cancellata dalla coscienza pubblica. Ma i bambini continuano a morire. Le famiglie continuano a scomparire sotto le macerie. E le bombe cadono nel silenzio. Quel silenzio, oggi, è la vera vergogna dell’Occidente.