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C’è un fumo denso che si alza dalle strade di Los Angeles, Chicago, New York e Seattle. Non è quello di una grigliata estiva né di un incendio di sterpaglie nei sobborghi, ma quello acre delle granate stordenti, dei lacrimogeni, dei cassonetti incendiati. È il fumo del conflitto sociale, della rabbia, della disperazione compressa per troppo tempo sotto una coltre di controllo, paura e retorica patriottica. Gli Stati Uniti stanno vivendo un’altra stagione di turbolenze urbane. E la domanda che oggi attraversa non solo le redazioni americane ma anche le capitali europee è brutale e insieme affascinante: sarà questa la nuova primavera americana?
Il Presidente Donald Trump, tornato al potere con il secondo mandato grazie a una campagna elettorale muscolare e ultranazionalista, ha parlato da Fort Bragg con toni da comandante in guerra: “Libereremo Los Angeles”, ha detto, con la solennità teatrale che lo ha sempre contraddistinto. Ma liberarla da chi? Da un nemico esterno o da una realtà interna che non si riconosce più nel “sogno americano”? I suoi oppositori parlano già di “occupazione militare mascherata da ordine pubblico”.
Negli ultimi giorni, la situazione è esplosa in numerose città americane. A Seattle, gli agenti del Department of Homeland Security (DHS), rifugiatisi in un edificio federale, sono stati assediati da manifestanti antifa e gruppi autonomi di sinistra radicale. Le forze dell’ordine locali si sono ritirate nel giro di venti minuti, lasciando la città in mano a un conflitto senza mediazione. Sulla 1st Avenue angolo Madison, si sono registrati lanci di oggetti, incendi e barricate. I video postati da giornalisti come Katie Daviscourt mostrano una città sull’orlo del collasso istituzionale, con milizie civili in assetto da guerriglia urbana.
Ma il cuore delle tensioni è la California, con una Los Angeles infuocata — letteralmente e politicamente. Le operazioni dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE) tra il 6 e il 9 giugno hanno rappresentato il detonatore: almeno 118 arresti in quartieri popolari come Compton e Westlake, veicoli non contrassegnati, granate stordenti, blitz in stile SWAT. Fonti del Los Angeles Times riportano testimonianze di residenti che parlano di “notte dei cristalli” in salsa contemporanea. Persone portate via senza mandato, famiglie divise, minoranze terrorizzate. E una rabbia che ribolle da anni, pronta a esplodere.
Il New York Times e la CNN coprono con tono più istituzionale la vicenda, parlando di “tensioni gestite” e di “operazioni necessarie per la sicurezza”. Ma dall’estero le letture sono ben più cupe. The Guardian titola: “Gli Stati Uniti alle prese con un conflitto sociale latente: la democrazia americana vacilla”. Le Monde parla di “guerre civili molecolari”, mentre Al Jazeera è più netta: “L’America affronta la sua intifada interna”.
Non è solo una questione migratoria. Il razzismo sistemico, la povertà endemica, l’esclusione sociale e il militarismo della polizia sono da anni un cocktail esplosivo. La militarizzazione delle città, voluta proprio dai governi post-11 settembre, non ha fermato la crescita del disagio. Lo ha soltanto reso più silenzioso. Fino a oggi.
Anche New York è tornata in fermento. Migliaia di manifestanti stanno marciando su Manhattan, nei pressi degli edifici federali. L’aria è tesa. Gli arresti si moltiplicano, ma la protesta sembra instancabile. A Chicago, si segnalano già scontri in zona South Side, mentre le unità antisommossa vengono mobilitate in massa. Le dirette social mostrano scene che ricordano da vicino quelle di Minneapolis nel 2020, o del Cairo nel 2011.
È davvero il preludio a una primavera americana? Le condizioni sembrano esserci tutte: un potere esecutivo percepito come autoritario, uno squilibrio crescente tra classi sociali, una gioventù disillusa e politicamente attiva, una repressione sempre più visibile. Ma soprattutto, una narrazione istituzionale che si è fatta opaca, incapace di rappresentare il pluralismo e il dolore.
I segnali ci sono. Eppure, la domanda vera è: ci sarà una risposta politica o solo altra repressione? Perché la storia insegna che ogni primavera repressa diventa autunno cupo. L’America ha già vissuto rivolte, proteste, sogni infranti. Ma stavolta la crisi sembra più profonda, più sistemica, più trasversale. Non si tratta più di un episodio. È una frattura.
Il Presidente Trump parla di “nemico straniero”. Ma forse, per la prima volta, il nemico non arriva dall’esterno. È il riflesso nel suo stesso specchio.
E noi, dall’Europa, faremo bene a non ridere delle disgrazie altrui. Perché la primavera americana è anche figlia della nostra ipocrisia, del nostro silenzio, della nostra complicità nei meccanismi economici e militari che tengono in piedi un impero in agonia.
Oggi brucia Los Angeles. Ma domani?
Potrebbe toccare a tutti noi.
Raimondo Schiavone