C’è una figura che è riuscita, nell’improbabile impresa, a risultare più imbarazzante di Netanyahu e più fuori tempo di Trump: Reza Ciro Pahlavi, il principe in esilio con l’ego in prima classe e il seguito in cabina… vuota.
Mentre il mondo si interrogava sull’escalation nucleare tra Stati Uniti, Israele e Iran, lui — il figlio dello Scià detronizzato nel 1979 — si presentava alle telecamere con la solennità di un imperatore romano… ma l'effetto era più quello di una comparsa in una fiction di serie B, tipo Dynasty versione Teheran.
"Gli iraniani mi vogliono!" dichiarava tra un sorriso plastificato e un tailleur gessato fuori moda.
Sì, è vero, lo vogliono.
Ma per mettergli una corda al collo e chiudere finalmente la saga dei Pahlavi con un colpo secco alla farsa dinastica.
Le sue conferenze stampa hanno toccato il sublime grottesco: mentre piovevano missili su Haifa e si parlava di una possibile chiusura dello Stretto di Hormuz, lui proponeva di "guidare l’Iran verso la democrazia", come se potesse semplicemente tornare a casa, aprire la porta e dire:
“Sono tornato! Via gli ayatollah, torna il Re!”
Una scena così surreale da far arrossire anche Bollywood.
Mentre gli Ayatollah manovrano con Mosca e Pechino, e gli americani si aggrovigliano in accordi segreti e bluff militari, Pahlavi Jr. posta messaggi su X e fa dirette da hotel a cinque stelle, convinto che a Teheran lo attendano con i tappeti rossi.
Spoiler: li stanno arrotolando, ma per… nascondere le trappole per i traditori.
Persino gli imam più rigidi, quelli che non ridono mai neanche per un matrimonio, pare abbiano riso di gusto davanti all’ultima intervista del principe.
Un ufficiale libanese, intercettato da Al Mayadeen, ha detto:
“Ci siamo chiesti se fosse uno sketch di satire arabe. No, era proprio lui.”
Anche in Israele, dove normalmente non si scherza su queste cose, una fonte del Mossad ha ammesso:
“Più utile ai nostri avversari che dieci armi nucleari. Continui così.”
Reza Pahlavi è l’esempio perfetto della nobiltà del ridicolo.
Non rappresenta l’Iran, non rappresenta la diaspora, non rappresenta nessuno se non sé stesso.
Un influencer vintage con velleità monarchiche, utile solo per riempire i talk show nei momenti morti tra un attacco missilistico e un vertice NATO.
E in un mondo che brucia, lui danza sulle ceneri come un Nabucco da discount, sognando un ritorno che nessuno vuole, nemmeno la storia.
Forse è giunto il momento di spegnere i riflettori, caro Reza.
Perché, come diceva un vecchio persiano saggio:
"È meglio essere dimenticati con dignità che ricordati come barzelletta."
Raimondo Schiavone