Blog di Raimondo Schiavone e amici

Quando la propaganda diventa il ventaglio per coprire la mancanza di contenuti

Viviamo un’epoca in cui la propaganda non è più un’eccezione, ma la regola. Non si manifesta soltanto nei comizi o nelle campagne elettorali: è ovunque. È nei post patinati che esaltano un evento senza dire nulla sul perché, nei proclami che celebrano risultati invisibili, nelle parole che suonano bene ma non costruiscono nulla. La propaganda è diventata il ventaglio che copre il vuoto: un oggetto elegante, colorato, che nasconde la nudità del pensiero e l’assenza di sostanza.

In Sardegna, questo fenomeno ha assunto contorni ancora più evidenti e, in un certo senso, grotteschi. La politica e la comunicazione pubblica si sono talmente intrecciate da diventare una cosa sola, una sorta di teatro permanente dove l’obiettivo non è più rappresentare la realtà, ma costruire una narrazione utile a sé stessi. Ci sono personaggi — amministratori, dirigenti, presunti comunicatori — che invece di riportare i fatti usano la delegittimazione e l’adulazione come strumenti dell’azione comunicativa. Attaccano chi dissente, lodano chi li sostiene, e così si allontanano sempre di più dalla realtà. La parola non serve più a spiegare, ma a colpire o a compiacere. È il trionfo del “come appari” sul “cosa fai”.

Il risultato è che la politica, quella vera, si dissolve in un linguaggio vuoto. Si parla di “progetti strategici”, “visioni di lungo periodo”, “rigenerazioni”, ma dietro c’è spesso solo l’eco di parole che non producono nulla. È la politica della vetrina, dove l’immagine sostituisce il contenuto, e il consenso si costruisce non attraverso la verità ma attraverso l’emozione momentanea.

Ma il problema non si ferma alla politica. Anche i promotori di cultura, sapere, arte e innovazione sono spesso diventati parte di questo meccanismo. Si autocelebrano come innovatori, ma comunicano come pubblicitari. Parlano di “ecosistemi dell’innovazione” come si parlerebbe di un prodotto da lanciare sul mercato, perdendo di vista la funzione più profonda del pensiero creativo: trasformare la società, non semplicemente “vendere” modernità. Si organizza un evento per fare notizia, non per fare cultura; si annuncia un progetto per generare visibilità, non per costruire conoscenza. Così, l’innovazione viene ridotta a un linguaggio di facciata, svuotata della sua vera dimensione etica e trasformativa.

Il filosofo Theodor Adorno ricordava che “la cultura ridotta a merce è già la sua caricatura”. È ciò che accade oggi, anche nella nostra isola: l’arte, il sapere e persino l’innovazione vengono piegati alla logica della propaganda, e la politica, anziché elevarsi, si abbassa al livello dell’intrattenimento. Ciò che conta non è la coerenza ma la percezione; non è la sostanza ma la capacità di dominare il racconto.

In questo contesto, ritrovare il senso significa avere il coraggio di rompere la catena dell’adulazione e della delegittimazione. Significa tornare alla parola come strumento di verità, e non come arma o ornamento. Significa ricordare che la buona politica, la vera cultura e l’innovazione autentica si misurano non su quanti applausi ricevono, ma su quanto riescono a trasformare la realtà.

La vera comunicazione, come la vera innovazione, non ha bisogno di coprirsi con il ventaglio della propaganda. Ha bisogno di aria, di trasparenza, di sostanza. Tutto il resto — le esaltazioni reciproche, gli slogan, i like e le passerelle — resta solo rumore di fondo.

E in mezzo a questo rumore, chi ancora sceglie di pensare, di dire la verità e di costruire invece di apparire, diventa, anche in Sardegna, la più autentica forma di resistenza civile e culturale.

Raimondo Schiavone 

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