L’affidamento ad una società esterna della produzione di un atto legislativo, la revisione della Legge Regionale n. 7 del 21 aprile 1955 — la norma che da settant’anni regola la promozione turistica dell’isola — rappresenta un vero e proprio esproprio del potere politico e democratico.
Non è solo una questione di forma.
Non è nemmeno un tecnicismo amministrativo.
È un vulnus istituzionale che colpisce il cuore stesso della sovranità regionale: la capacità di scrivere le proprie leggi, di decidere come sostenere e promuovere il turismo, di delineare il futuro economico e culturale della Sardegna.
Non entro nel merito del recondito tecnico né delle presunte ambizioni dell’assessore Franco Cuccureddu, che pare voglia riscrivere a suo piacimento la legge per piegare a logiche discrezionali il sistema dei contributi agli eventi di promozione.
Non è questo il punto.
Il punto è il silenzio assordante che accompagna questa vicenda.
Silenzio della maggioranza, silenzio della minoranza, silenzio del Consiglio regionale.
Possibile che nessuno abbia avuto il coraggio di dire che una legge non si appalta?
Possibile che in tutto il palazzo non si trovi una sola voce capace di denunciare lo scippo politico di una prerogativa fondamentale?
A cosa serve, allora, il Consiglio regionale?
A ratificare decisioni prese altrove?
A fare da notaio agli atti di Giunta?
O forse, ormai, è diventato un organo decorativo, utile solo a giustificare stipendi e indennità?
Se davvero la funzione legislativa può essere delegata con un CIG e un CUP, allora tanto vale dirlo chiaramente:
abbattiamo i costi della politica e convenzioniamo trenta consulenti per scrivere le leggi.
Almeno risparmieremmo milioni in gettoni, commissioni e rimborsi.
È una provocazione, certo, ma non troppo lontana dalla realtà che si sta disegnando.
La Giunta regionale ha il dovere politico e morale di ritirare immediatamente quella delibera.
E l’assessore Cuccureddu, che in pochi mesi è riuscito a lasciare dietro di sé una scia di contestazioni, silenzi e decisioni opache, deve chiedere scusa ai sardi e agli operatori del turismo.
Non solo per questo episodio, ma per l’intera sua azione politica:
un misto di supponenza e incompetenza, priva di visione, priva di ascolto, priva di rispetto per un comparto che rappresenta quasi un terzo dell’economia isolana e che lui stesso, nei fatti, ha contribuito a mortificare.
Sotto la sua guida, il turismo sardo è stato trattato come un feudo personale, un terreno di propaganda, non come un sistema da valorizzare.
Ha promesso riforme, ma ha prodotto confusione. Basta vedere cosa sta combinando sui Centri Commerciali Naturali.
Ha evocato piani strategici, ma ha consegnato burocrazia e vuoto politico.
E ora si spinge oltre: delegare la riscrittura della legge più importante del settore a un soggetto privato.
È il simbolo di una politica che non pensa più, che non elabora, che non guida.
Una politica che si limita a firmare contratti per acquistare idee da altri, e che nel farlo svende la propria dignità istituzionale.
Il turismo sardo merita di più.
Merita un assessorato competente, capace di dialogare, di programmare, di valorizzare le intelligenze dell’isola — non di affidarsi a consulenze esterne per capire chi siamo e dove vogliamo andare.
Merita una politica che governa, non che subappalta il proprio pensiero.
Perché una legge non è un appalto.
È un atto di sovranità, di responsabilità, di visione.
E quando la politica smette di scriverle, le leggi, smette anche di essere politica.
Diventa solo burocrazia travestita da governo.
E la Sardegna, ancora una volta, resta orfana di chi dovrebbe difenderla.
Raimondo Schiavone














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