È accaduto quello che fino a ieri sembrava impossibile: non più un drone che colpisce una raffineria al confine o una scintilla nei cieli di Belgorod. Nella notte tra sabato e domenica, l'Ucraina ha sferrato un attacco senza precedenti alle basi aeree strategiche della Russia, colpendo gli aeroporti militari di Engels, Shaykovka e perfino la remota base siberiana di Belaya, dove sono stanziati i bombardieri strategici Tupolev Tu-95 e Tu-22M3.
Un attacco che Mosca ha definito “una provocazione deliberata volta a minacciare l'equilibrio strategico globale”. Il Ministero della Difesa russo ha accusato direttamente la NATO, sostenendo che “dietro l’operazione Spider Web non può non esserci la supervisione tecnica dell’intelligence statunitense”. Secondo fonti militari russe, sarebbero stati danneggiati o distrutti più di 40 velivoli strategici, e alcuni siti radar secondari.
La risposta del Cremlino non si è fatta attendere. In un messaggio alla nazione, Vladimir Putin ha parlato con toni gravi: “Abbiamo subito un attacco al cuore delle nostre capacità difensive. La dottrina è chiara: se l’integrità strategica della Federazione Russa è minacciata, tutte le opzioni sono sul tavolo. E tutte significa tutte”.
Una dichiarazione che ha gelato le cancellerie occidentali e fatto impennare la temperatura geopolitica. Perché nella dottrina russa aggiornata nel 2024, la “triade nucleare” – composta da missili balistici, sottomarini e bombardieri – è considerata sacra. Colpirla significa violare una linea rossa. E violarla può giustificare il ricorso anche ad armamenti atomici “limitati”.
Intanto, sui media russi si rincorrono analisi da guerra fredda. Il quotidiano Komsomolskaya Pravda ha parlato di un “attacco stile Pearl Harbor”, mentre Izvestia ha sottolineato che “questa operazione non è solo una sfida militare, ma un’umiliazione simbolica”, suggerendo che la Russia non può permettersi di “restare immobile”.
A Kyiv, invece, si parla di legittima difesa strategica. Fonti vicine ai servizi segreti ucraini affermano che si tratta di una risposta calibrata alle continue distruzioni di infrastrutture civili e centrali elettriche da parte dei missili russi: “Se la Russia colpisce le nostre città, noi possiamo colpire i loro strumenti di distruzione. È deterrenza, non provocazione”.
Ma il mondo, intanto, trema. La Casa Bianca si è detta “estremamente preoccupata per l'escalation” e ha chiesto a Mosca di “non reagire in modo sproporzionato”. Anche Macron e Scholz hanno sollecitato una tregua diplomatica. Ma l’atmosfera, in questi giorni di inizio giugno, sembra più da ottobre 1962 che da tavolo negoziale.
E mentre le testate nucleari di Kaluga e Saratov passano da allerta 3 a livello 2, come indicato da alcuni osservatori militari indipendenti, una domanda corre silenziosa nei corridoi della diplomazia internazionale: Putin risponderà con forza o userà la paura per trattare da una posizione superiore?
In mezzo a questa tensione, c’è un dato inquietante che resta sullo sfondo: mai prima d’ora, nella guerra russo-ucraina, si era arrivati così vicini alla possibilità concreta di un uso – anche solo tattico – dell’arma nucleare. E se oggi il cielo tace, è solo perché la guerra – la vera guerra, quella definitiva – non ha ancora urlato.
Raimondo Schiavone