Sono passati diversi giorni dalla fine della guerra lampo tra Israele e Iran. Un conflitto breve ma intensissimo, carico di aspettative da parte di chi sognava un rovesciamento del regime di Teheran. In particolare, l’opposizione iraniana in esilio – composta da volti noti come Reza Pahlavi e da organizzazioni legate a potenze straniere – aveva scommesso su una destabilizzazione irreversibile della Repubblica Islamica.
Quando i raid israeliani hanno cominciato a colpire generali e infrastrutture dei Guardiani della Rivoluzione, in molti hanno letto questi attacchi come parte di una strategia più ampia: eliminare il nucleo duro del potere e provocare un sollevamento popolare. La comparsa mediatica di Reza Pahlavi – tra proclami di rivoluzione e nostalgie monarchiche – sembrava far parte di un copione già scritto.
Ma questo copione si è scontrato con una realtà diversa. Le vittime civili – donne, bambini, intere famiglie – hanno risvegliato nello spirito iraniano non la rabbia contro il regime, ma la solidarietà verso il proprio Stato. L’aggressione militare, letta come una violazione della sovranità nazionale, ha provocato un effetto diametralmente opposto a quello sperato: la popolazione si è compattata intorno alle istituzioni.
La leadership della Repubblica Islamica, pur sotto pressione e con problemi interni ben noti, è riuscita non solo a reggere l’urto, ma a uscire dal conflitto con un’aura di resistenza e legittimità rafforzata. L’opposizione, ancora una volta, è rimasta a mani vuote. Le proteste di piazza tanto attese non sono esplose. Nessun sommovimento interno ha scosso il potere.
Intanto, sul fronte istituzionale, il nuovo Presidente Masoud Pezeshkian ha assunto un ruolo centrale nei delicati equilibri post-conflitto. La transizione politica che si profila in Iran – dopo decenni di leadership stabile – è un processo che si gioca tutto all’interno delle strutture dello Stato. Non nei salotti televisivi dell’esilio.
La strategia del “cambio di regime dall’esterno”, alimentata da retorica bellica e messaggi da oltre confine, si è rivelata ancora una volta fallimentare. L’Iran è ancora lì, con le sue contraddizioni ma anche con una capacità notevole di assorbire gli urti.
L’illusione di rovesciare un sistema consolidato con qualche raid aereo e un portavoce nostalgico in giacca e cravatta si è dissolta nel silenzio. E Reza Pahlavi, che si era fatto avanti con tanta foga, è tornato nell’ombra. Forse definitivamente.