Partecipare davvero, con il cuore, con la mente, con il corpo. Significa esporsi, ferirsi, restare delusi. Significa metterci la faccia, la voce, la rabbia. Vivere la partecipazione non è una scelta leggera: è un esercizio continuo di fatica morale, di pazienza bruciata, di notti insonni passate a chiedersi se ne valga la pena.
Chi partecipa sa che ogni giorno dovrà fare i conti con l’ipocrisia, con il disinteresse altrui, con il peso di chi ti dice: «Ma chi te lo fa fare?». Eppure c’è chi ancora sceglie di esserci, di non voltarsi, di provare a cambiare anche una piccola cosa. Sono quelli che camminano con le spalle curve, logorati da un senso di responsabilità che non li lascia mai in pace.
Ma poi ci sono gli altri. Gli indifferenti. I beati irresponsabili. Quelli che vivono galleggiando, che non vogliono capire, che non vogliono decidere, che non vogliono scegliere. Hanno fatto della superficialità uno stile di vita e dell’indifferenza un balsamo per l’anima. Non si arrabbiano mai, non si scandalizzano mai, non prendono posizione. E stanno benissimo così.
Sono sereni, perché hanno deciso che la coscienza è un ingombro. Che il dolore degli altri è un rumore di fondo. Che la realtà è troppo complessa per sporcarsi le mani.
E allora viene il dubbio. Forse hanno ragione loro. Forse vivere con leggerezza, fregarsene, voltarsi dall’altra parte, è l’unica via per non impazzire. Forse l’impegno è solo un’illusione romantica che ci condanna all’infelicità.
Ma c’è una differenza, sottile ma fondamentale. L’indifferente non soffre, è vero. Ma non ama nemmeno. Non crea, non sogna, non lascia nulla. Passa, come l’aria.
Chi partecipa, invece, lascia impronte. Anche se sono impronte stanche, anche se a volte sono impronte di sangue.
E allora, forse, nonostante tutto, è meglio faticare che svanire.
Raimondo Schiavone