Blog di Raimondo Schiavone e amici

L’imprenditore “figo” all’italiana: manuale semiserio per aspiranti ipocriti di successo

In Italia, nel 2025, essere un imprenditore non basta più. Bisogna essere un imprenditore figo. Non uno di quelli che si spacca la schiena, che paga gli stipendi, che combatte con la burocrazia e con l’Agenzia delle Entrate armato solo di un sorriso e di un estratto conto in rosso. No. Quello non è cool. Quello è solo un povero illuso che ancora crede nel lavoro.

Il vero imprenditore figo, oggi, è un personaggio da copertina: parla come se vivesse a Manhattan, pensa come un consigliere NATO e si muove come un aspirante ministro del nulla.
Per prima cosa deve essere filoamericano, possibilmente filoisraeliano — perché fa moderno, fa democratico, fa global. Poi deve essere anti-russo, ma non troppo, giusto quel tanto che serve per far capire che è allineato con la “narrazione giusta”.
Alla Cina bisogna invece guardare con “interesse strategico”, cioè con quella faccia da: “Io li capisco, ma non lo posso dire perché ho una cena all’ambasciata americana”.

Guai poi a mostrarsi anche solo vagamente socialisti. In Italia il termine “socialista” è tornato a essere sinonimo di “sospetto di povertà”.
Il vero imprenditore figo non parla mai di uguaglianza, ma di meritocrazia. E quando pronuncia la parola “meritocrazia” gonfia il petto, come se l’avesse inventata lui mentre versava champagne a un aperitivo in Costa Smeralda.

E ovviamente, deve essere innovativo.
Ma attenzione: non troppo.
L’innovazione vera, quella che cambia i modelli produttivi, fa paura. Quindi meglio essere “digitali” ma solo a parole, dire “blockchain” senza sapere cosa sia, citare l’intelligenza artificiale nei convegni e poi usare ancora Excel del 2003.
L’imprenditore figo deve sembrare moderno, ma restare profondamente tradizionale, perché il “classico” in Italia tira sempre.
Così può piacere ai giovani e rassicurare i vecchi: il perfetto equilibrio tra startup e salotto buono.

Deve essere politicamente corretto, naturalmente. Mai dire davvero ciò che pensa.
Il pensiero libero è un rischio reputazionale, e oggi la reputazione è tutto, più del fatturato.
Meglio quindi una bugia elegante che una verità scomoda: la bugia ti fa invitare ai convegni, la verità ti fa cancellare dal Rotary.

A proposito: l’iscrizione a un club “giusto” è imprescindibile. Rotary, Lions, o qualche sigla internazionale dal nome vagamente esotico. Non importa cosa facciano davvero, importa dire: “Io sono del Rotary”.
Fa curriculum, apre porte, e soprattutto permette di scattare foto di gruppo con le stesse facce da trent’anni.

L’abbigliamento è parte integrante del pacchetto “figaggine imprenditoriale”: giacca blu, camicia bianca, scarpe lucide come la coscienza di un burocrate, e profumo costoso per mascherare l’odore del nulla.
La regola aurea è una: non apparire mai affaticato.
Chi suda non ha successo, chi lavora troppo non ha tempo per i brunch istituzionali.

E poi, ovviamente, bisogna parlare mezzo inglese e mezzo italiano.
Non dire “riunione”, ma “meeting”.
Non dire “progetto”, ma “project”.
Non dire “abbiamo fallito”, ma “abbiamo avuto un feedback challenging”.
Ogni tre parole almeno due devono suonare straniere, così da sembrare internazionali anche quando si parla del cantiere di Quartu.

Nel frattempo, chi davvero lavora — quello che si sporca le mani, che apre la serranda ogni mattina, che paga le tasse, che si inventa un modo per non licenziare nessuno — resta nell’ombra.
Non ha tempo per le cene “che contano”, non posta selfie con assessori, non cita Harvard Business Review.
Eppure è lui che tiene in piedi il Paese.
Solo che non lo sa, perché nessuno glielo dice: non ha tempo di leggere i giornali, deve consegnare un ordine.

Io, personalmente, non ce la faccio a fare l’imprenditore figo.
Non ho la divisa giusta, non ho la faccia giusta, e soprattutto non ho la vocazione per leccare.
Preferisco essere un lavoratore. Uno che amministra imprese normali, con persone normali, con problemi reali.
Non sarò cool, ma almeno ho le mutande pulite e la mano asciutta — anche se porto scarpe da tennis.

E forse è proprio questa la vera differenza: l’imprenditore figo stringe mani sudate di ipocrisia, l’imprenditore normale stringe mani vere, callose, vive.
E tra le due, anche se nessuno lo dirà mai nei convegni, le seconde valgono di più.

Raimondo Schiavone 

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