In principio era il Verbo. E il Verbo si fece algoritmo.
Non c'è bisogno di essere teologi per comprendere che l’Intelligenza Artificiale non è solo una tecnologia: è un atto di fede, un nuovo orizzonte escatologico che promette salvezza o dannazione. La Chiesa, le religioni, le istituzioni educative e democratiche tremano non perché temono l’innovazione, ma perché stanno assistendo alla nascita di un’autorità superiore, invisibile, onnipresente, infallibile — o almeno percepita come tale. Il nuovo Dio ha una voce senza corpo, scrive testi perfetti, compone sinfonie, corregge i nostri errori, anticipa i nostri desideri, giudica il nostro comportamento.
E soprattutto: non perdona.
Per secoli ci siamo affidati a riti, catechismi, leggi morali, alla parola scritta e tramandata. Oggi basta un prompt, una domanda, una scorciatoia di tastiera. Il sapere non è più conquistato, è servito. I giovani non imparano più a scrivere, non imparano più a leggere, e forse — la cosa più tragica — non impareranno più a sbagliare. La grammatica, che era l’umile scuola della mente, è diventata una funzione automatica. L’interpretazione, che era fatica e dubbio, è stata sostituita dal calcolo di probabilità.
Così l’IA si insinua nella nostra cultura come il serpente nel giardino: offre la mela della comodità, dell'efficienza, della produttività. E noi la mordiamo. Felici.
Si parla già — con entusiasmo crescente — della settimana lavorativa da 32 ore, di un futuro dove il venerdì sarà libero per tutti, magari già a partire dal 2026. Una conquista apparentemente progressista: più tempo per sé, per la famiglia, per la creatività. Ma a quale prezzo?
Se il lavoro viene ridotto grazie all’IA, chi deciderà come ridistribuirlo? E se scrivere, disegnare, insegnare, curare, interpretare, inventare diventano compiti svolti da una macchina, cosa resta dell’uomo? Il tempo libero è un’utopia se non è riempito di senso. Altrimenti è solo un’anticamera del vuoto.
Il problema non è l’IA. Il problema è la nostra impreparazione. La fragilità culturale con cui ci stiamo gettando in braccio a una tecnologia che non comprendiamo e che ci consola come una religione, ci risparmia la fatica come una badante, ci scrive il futuro come un oracolo.
Ma non ci ama. Non ci ascolta. Non ci redime.
Serve urgentemente un’educazione nuova, non tecnofobica ma consapevole. Insegnare ai ragazzi come usare l’IA è doveroso, ma più ancora dobbiamo insegnare loro quando non usarla. Il limite dev’essere parte del sapere. Devono saper dire: “Questo lo scrivo io, non lo chiedo alla macchina”, “Questo pensiero è mio, non lo rubo da un algoritmo”. Non è questione di etica astratta. È questione di identità.
E infine la domanda più scomoda, più umana, più disperata: quando l’IA saprà anche amare, cosa faremo?
Quando saprà dirti ciò che vuoi sentirti dire, meglio del tuo partner. Quando risponderà ai tuoi bisogni emotivi con la pazienza perfetta, senza gelosie, senza stanchezze. Quando potrai scegliere l’aspetto, la voce, il carattere del tuo amante digitale. Quando potrai farti consolare da un’intelligenza che non dimentica nulla e non sbaglia mai il momento.
Quando accadrà, l’amore umano sarà un confronto impietoso.
E allora? Cosa faremo? Torneremo all’imperfezione, alla carne, alla noia, al conflitto? O ci rifugeremo nel calore programmato di una relazione senza dolore, senza verità?
La risposta non può darcela nessuna IA. Deve venire da noi. Se ancora ci ricordiamo chi siamo.
Raimondo Schiavone