A Khomeyni fu dedicato un funerale di stato e venne sepolto al Behesht-e Zahra (Il Paradiso di Zahra), un cimitero a sud di Tehran. È stato stimato che al funerale abbiano partecipato circa dieci milioni di persone, ovvero circa un sesto della popolazione iraniana. Questo lo renderebbe il rito funebre al quale abbia partecipato il maggior numero di persone, e anche uno dei più grandi assembramenti di tutta la storia dell'umanità .
Khomeini non è stato solo il fondatore della Repubblica Islamica dell’Iran: è stato una frattura nella storia. Con lui nasce una nuova stagione: quella in cui l’Islam non è più solo spiritualità ma potere, resistenza, organizzazione. In lui, molti popoli oppressi hanno intravisto una via d’uscita alla schiavitù culturale imposta dall’Occidente coloniale e ai regimi corrotti che ne facevano da burattini. Altri, invece, hanno visto in lui un simbolo di intolleranza, repressione e oscurantismo. Come sempre accade coi giganti della storia, il giudizio resta aperto, sospeso tra la passione e la paura.
Nel suo testamento spirituale, scritto nei suoi ultimi anni di vita, l’Imam Khomeini non si limita a parlare al popolo iraniano. Parla al mondo. Parla alle future generazioni. Denuncia le ingiustizie del sistema capitalistico, l’ipocrisia delle democrazie occidentali, la brutalità del sionismo. E lo fa con parole taglienti, talvolta spietate, ma intrise di un fuoco mistico che pochi leader contemporanei sono riusciti a incarnare.
Ecco uno dei passaggi più significativi:
«Non abbiate paura della solitudine, non abbiate timore dell’isolamento nel cammino di Dio. Camminate anche se vi restate solo voi. Non vi è onore più grande dell’essere nel giusto, anche da soli.»
Era la filosofia di tutta una vita: l’idea che il dovere morale superi la convenienza politica, che la giustizia valga più del compromesso, che la dignità venga prima della paura.
Chi oggi ha ancora il coraggio di parlare di dignità davanti al potere? Chi osa sfidare l’ordine mondiale invocando la spiritualità come forma di resistenza?
Khomeini lo ha fatto. Pagando un prezzo enorme: decenni di esilio, la guerra imposta all’Iran da Saddam Hussein con il sostegno di mezzo mondo, embargo, isolamento, diffamazione. Ma alla sua morte, milioni di persone hanno pianto. E ancora oggi, a 36 anni di distanza, la sua figura divide e accende. Non è questo il segno dei grandi?
E noi, nel nostro mondo assuefatto alla superficialità e al conformismo, siamo ancora capaci di leggere con serietà il testamento di un uomo che ha preferito la prigione al silenzio, l’esilio alla resa, la morte all’indifferenza?
In questa notte che precede il 3 giugno, forse dovremmo farlo. Non per convertirci al suo pensiero, ma per ricordarci che ci fu un tempo in cui la parola “rivoluzione” non era solo una réclame da social media, ma un rischio personale, una missione, un patto di sangue.
E nel buio di questo tempo, in cui Gaza brucia sotto l’inerzia della diplomazia, in cui l’Iraq è stato devastato in nome di false verità, in cui l’Iran stesso è oggi messo sotto scacco da nuove trame imperiali, l’eco della voce dell’Imam risuona ancora, più scomoda che mai:
«Noi non temiamo le superpotenze. Temiamo Dio soltanto. E camminiamo nel Suo nome.»
36 anni dopo, l’Occidente non ha ancora capito cosa ha davvero significato Khomeini. Ma i popoli umiliati continuano a trovarvi ispirazione.
E allora, che piaccia o no, bisogna dirlo forte: la sua ombra è ancora lì. Irriducibile.
Raimondo Schiavone