Blog di Raimondo Schiavone e amici

La tavola dell’invidia: sociologia spicciola della Sardegna che non vuole che tu abbia fame

C’è una malattia antica, endemica, che continua a infestare la Sardegna: il vizio di guardare nel piatto degli altri. Non per fame, non per vera curiosità, ma per sospetto, per malanimo, per quel misto di invidia e frustrazione che nasce da una radicata sindrome da inferiorità. Un’abitudine meschina travestita da vigilanza civica, un'ossessione compulsiva tipica di certi ambienti che si ritengono custodi morali della purezza isolana.

I casi emblematici? Alcuni sono fin troppo noti. Mario Guerrini, Paolo Maninchedda e tutta la loro cerchia, accademico-politico-letteraria, da anni praticano questa disciplina con zelo da inquisizione. Sempre col naso storto sul piatto altrui, per vedere chi mangia, cosa mangia, con chi mangia. E soprattutto se ha avuto l’invito a tavola senza il loro timbro di autenticità.

In questo modo si è costruita una cultura che non premia chi fa, ma chi commenta. Che non sostiene chi rischia, ma chi denigra. Dove il successo è un peccato da espiare, e l’autonomia di pensiero un tradimento. In un'isola dove il pensiero critico dovrebbe essere coltivato come un bene raro, si pratica invece la caccia al diverso, al dissidente, al troppo intraprendente. Perché nella Sardegna di certi clan, chi osa troppo è subito sospetto. E chi ha fame, deve aver rubato qualcosa.

Ma attenzione: non si tratta solo di invidia personale. C’è una logica precisa, un potere costruito sull’immobilismo e sul controllo sociale. Guardare nel piatto dell’altro è, in fondo, una forma di sorveglianza politica e culturale. Serve a stabilire chi ha diritto a parlare e chi no. Chi è sardo autentico e chi no. Chi può fare e chi deve stare zitto.

Ed è qui che si scopre la radice profonda del problema: un’aristocrazia fallita che ha trasformato il senso critico in maldicenza, il pensiero in dietrologia, la cultura in proprietà privata. E così, invece di costruire, distruggono. Invece di dialogare, diffamano. E invece di mangiare insieme, si siedono ai bordi della tavola per contare i bocconi degli altri.

Sarebbe utile, a questo punto, uno studio serio su questa patologia collettiva. Perché la Sardegna non sarà mai libera finché chi si alza per andare avanti dovrà passare l’esame di chi non si è mai mosso da dov’era. Finché ogni successo dovrà essere giustificato, ogni incarico sospettato, ogni iniziativa sezionata.

Forse è ora di alzarsi da certi tavoli. E apparecchiare i propri, senza preoccuparsi degli sguardi storti. Perché la Sardegna cambierà davvero solo quando smetteremo di guardare nel piatto degli altri e cominceremo a cucinare qualcosa di buono insieme.

di Raimondo Schiavone

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