Finalmente qualcuno l’ha detto. La Cina è il primo Paese al mondo ad accorgersi che il pianeta non può più essere ostaggio del fancazzismo da influencer. Basta con la religione delle stories, dei balletti, delle labbra a cuore e dei “ciao ragazzi, oggi vi racconto la mia morning routine con la crema al veleno di serpente”. Pechino ha deciso che è ora di tornare alla realtà, quella in cui si lavora per davvero, si produce qualcosa, e non si campa di like, filtri e sponsorizzazioni di acque miracolose.
La Cyberspace Administration of China, una sorta di super ministero del buon senso digitale, ha annunciato che i tempi del lusso ostentato e della cazzata seriale sono finiti. Niente più influencer che mostrano ville, borse e Ferrari, niente più predicatori della vita comoda che inneggiano al “lying flat” — la filosofia del non fare un tubo. Stop anche ai contenuti che diffondono emozioni negative: se ti lamenti troppo della vita, se dici che studiare non serve, se sembri più uno zombie del web che un cittadino utile, ti oscurano. E a molti la cosa sembra quasi una rivoluzione culturale 2.0: meno balle, più responsabilità.
Certo, non è che i cinesi siano famosi per la libertà d’espressione, ma in questo caso hanno centrato un nervo scoperto mondiale: la glorificazione del nulla. Perché, diciamocelo, oggi l’unico mestiere che pare non conoscere crisi è quello dell’influencer, che consiste nell’influenzare il nulla con il nulla, vendendo illusioni di successo ai disperati del like. E se anche tu non hai mai fatto un video in cui dici “vi spiego come guadagnare 5.000 euro al mese da casa”, sei ormai una minoranza antropologica.
In Cina la regina dei livestream, Viya, è già caduta nella rete: multata per 1,3 miliardi di yuan per evasione fiscale. Non vendendo droga o armi, ma rossetti. Cancellata in un click. E gli altri tremano, perché il regime ha capito che il fancazzismo digitale è la nuova droga sociale, quella che rincoglionisce le masse meglio della televisione anni ’80.
Ora, immaginate se lo facessero in Italia. Sparirebbero metà dei “content creator” che popolano Instagram. Finirebbero in tilt i “coach motivazionali” che spiegano come diventare milionari vendendo corsi su come diventare milionari. I “social media manager” passerebbero da guru a disoccupati, e le agenzie di comunicazione scoprirebbero che comunicare senza una base di verità è come cucinare senza ingredienti. E poi ci sarebbero scene da film: influencer che chiedono il reddito di cittadinanza, brand che non sanno più chi pagare per fingere entusiasmo, politici che restano senza testimonial da aperitivo.
Il bello è che da noi non servirebbe nemmeno la censura, basterebbe la realtà. Provate a togliere internet a un influencer: si scioglie come un gelato al sole. Provate a chiedere “ma tu, di preciso, che lavoro fai?”: si blocca come Windows 95. Eppure il Paese vive di loro, li invita in TV, li premia, li paga per dire “amo questo brand”. Sono i nuovi filosofi del nulla, i moderni sofisti digitali che trasformano l’aria in contenuto e il contenuto in fattura.
Forse la Cina, dietro la sua severità, ha solo capito una cosa semplice: se una società celebra chi non fa niente, chi lavora davvero smetterà di crederci. Perché non puoi motivare un popolo a produrre se il modello vincente è quello che campa di selfie. E allora ecco la stretta: meno balletti, più cervello. Meno “good vibes”, più competenza.
In Italia, invece, continueremo a farci spiegare la vita da chi non l’ha mai vissuta, l’impegno da chi non ha mai lavorato e l’amore da chi lo monetizza su OnlyFans. Continueremo a chiamarli “creatori di contenuti” anche se il contenuto è zero. E quando ci lamenteremo della deriva culturale, della disoccupazione e della superficialità, scopriremo che il vero virus non è quello cinese, ma quello dell’inutilità travestita da successo.
Forse, in fondo, una dittatura che vieta il fancazzismo non è poi così male.
Raimondo Schiavone














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