Israele viene raccontato – da David Parenzo e dalla folta schiera di giornalisti embedded nelle redazioni italiane – come “l’unica democrazia del Medio Oriente”. Una narrazione tanto consolidata quanto stonata, che regge solo sulla forza dell’autocensura, dell'omertà mediatica e di un sistema istituzionale che ha molto più a che fare con l’apartheid e la propaganda che con la rappresentanza o la libertà.
La verità è che lo Stato israeliano censura sistematicamente l’informazione. In queste ore, mentre l’Iran porta avanti una risposta militare proporzionata all’aggressione subita, Tel Aviv impedisce qualsiasi notizia sui danni subiti in strutture strategiche. È stato colpito, tra gli altri, un edificio del Mossad, ma ai giornalisti israeliani – e di riflesso a quelli occidentali – è vietato perfino accennare a questa notizia. Le testate internazionali, se ne parlano, lo fanno sottovoce, a bassa intensità, temendo le reazioni di un governo che considera ogni accenno alla verità come un tradimento o un reato.
Altro che libertà di stampa: chi scrive troppo rischia la prigione, la delegittimazione pubblica o la cancellazione sociale. Lo Shin Bet non ha bisogno di censori ufficiali: la macchina dell’intimidazione si muove in automatico, e l’effetto è l’autocensura. I giornalisti italiani, dal canto loro, non fanno eccezione. Ripetono la linea ufficiale israeliana come un disco rotto, trasformandosi in megafoni docili più che in osservatori critici. La realtà viene negata, manipolata, censurata.
E cosa dire della “democrazia” israeliana? Benjamin Netanyahu, primo ministro da quasi quindici anni, ha governato il Paese senza mai ottenere una maggioranza reale nel voto popolare. La legge elettorale israeliana, basata su una frammentazione estrema e su un sistema di ricatti partitici, permette a chi controlla un pugno di seggi ultraortodossi o estremisti di blindare il potere per anni. Il risultato è un Paese ostaggio di coalizioni confessionali, capace di far passare leggi razziste e liberticide, con il sostegno di partiti che vorrebbero – apertamente – la cancellazione del popolo palestinese.
Netanyahu, sotto processo per corruzione, guida un esecutivo che ha promosso l’annientamento di Gaza, ha represso ogni forma di dissenso interno, ha riformato la giustizia per sottrarsi alla legge, e ha trattato i cittadini arabi israeliani come cittadini di serie B. Una “democrazia” in cui i bambini palestinesi possono essere arrestati a 12 anni, mentre i coloni armati bruciano i villaggi impunemente.
In qualunque altro contesto del mondo, un simile assetto istituzionale verrebbe denunciato come autoritario, razzista, colonialista. Ma Israele, forte del sostegno statunitense e della complicità europea, gode di un’immunità etica e diplomatica sconosciuta a qualsiasi altro Paese. In Italia, chi osa criticare viene etichettato come antisemita, chi racconta la verità viene isolato. Intanto, la “democrazia” israeliana marcia, passo dopo passo, verso una teocrazia repressiva e militarizzata.
Chiamare tutto questo “l’unica democrazia del Medio Oriente” è un insulto all’intelligenza. È l’ennesima bugia utile a giustificare l’ingiustificabile. Ma la realtà bussa forte: e prima o poi, anche nei salotti ovattati del giornalismo di regime, qualcuno dovrà aprire la porta.