C’è un dato inoppugnabile che dovrebbe far riflettere ogni osservatore onesto della politica internazionale: gli Stati Uniti non hanno mai smesso di fare guerra. Fin dalla loro nascita, nel 1776, sono entrati sistematicamente in conflitto con chiunque si opponesse alla loro visione del mondo: nativi americani, imperi coloniali, potenze emergenti, governi ostili, stati falliti, rivoluzioni disallineate, terroristi creati e poi usati come pretesto. Ogni generazione americana ha avuto la sua guerra. È il sangue che scorre nelle vene del Paese, la benzina che muove il motore del loro dominio globale.
Gli USA non hanno una storia millenaria, nessuna epica antica, nessuna cultura tramandata da secoli. Sono un popolo giovane, forgiato dalla conquista, alimentato dalla violenza, unito dalla paura e dalla propaganda. E come ogni civiltà priva di radici profonde, ha costruito la propria identità sul dominio militare. La guerra è la loro memoria storica.
Dopo la guerra d’indipendenza (1775-1783), gli Stati Uniti si scatenano contro le popolazioni indigene. Una lunga sequenza di campagne militari, dal massacro di Wounded Knee alla “Trail of Tears”, cancella fisicamente e culturalmente centinaia di tribù. I nativi vengono sterminati, deportati, assimilati a forza. La nascita della “democrazia americana” coincide con il genocidio degli autoctoni.
Segue la guerra contro il Messico (1846-1848), con cui gli USA strappano metà del territorio messicano: California, Texas, Arizona, New Mexico. Poi la guerra ispano-americana (1898): Cuba, Porto Rico, Filippine e Guam finiscono sotto controllo americano. È l’inizio dell’imperialismo moderno a stelle e strisce. L’esercito diventa la prima ambasciata.
Entrano nella Prima Guerra Mondiale nel 1917, tardi ma decisivi. Nella Seconda (1941-1945), diventano i salvatori dell’Occidente ma anche i dominatori del dopoguerra: Germania e Giappone vengono rifatti a loro immagine. È qui che nasce il vero Impero Americano. Da quel momento, ogni conflitto diventa teatro di intervento. Con l’URSS si apre la stagione delle guerre per procura: Corea, Vietnam, Cambogia, Laos. Il Vietnam è l’emblema del fallimento americano. Una guerra durata vent’anni, che ha causato oltre tre milioni di morti, di cui più di due milioni civili. Un Paese devastato dal napalm, dal fosforo bianco, dall’agente arancio. Interi villaggi cancellati. Bambini bruciati vivi. Un orrore trasmesso in diretta tv, che ha rivelato al mondo il volto brutale della “libertà” americana. E nonostante tutto, hanno perso. I Vietcong, armati di sandali e fucili, hanno umiliato la più grande macchina da guerra del mondo. Ed è stato il popolo americano, tornato in patria con le bare, a scoprirsi ingannato.
Poi i colpi di Stato in America Latina (Cile, Argentina, Guatemala), le invasioni dirette (Granada, Panama), i bombardamenti punitivi (Libia anni ’80, Serbia), i finanziamenti ai gruppi armati (i mujaheddin in Afghanistan, futuri talebani e Al Qaeda). Dove c’è un nemico della NATO, c’è una guerra americana.
Dall’11 settembre 2001 il mondo entra nella nuova fase della “Guerra Infinita”. Gli Stati Uniti invadono l’Afghanistan con il pretesto di colpire Bin Laden. Vent’anni dopo, lasceranno Kabul di nascosto nella notte, sconfitti dai talebani che loro stessi avevano armato decenni prima. Poi è la volta dell’Iraq. Saddam Hussein viene rovesciato con la menzogna delle “armi di distruzione di massa”. Il paese viene smembrato, milioni di morti, nascita dell’ISIS. Nessun colpevole. Solo appalti e petrolio.
Nel 2011, tocca alla Libia. Gheddafi viene assassinato, il paese precipita nel caos. L’intervento NATO guidato da USA e Francia distrugge lo Stato più prospero dell’Africa, lasciando spazio a milizie armate, traffici di esseri umani e basi jihadiste. Poi la Siria. Finanziamenti ai “ribelli moderati” che si rivelano gruppi terroristi. Bombe contro Assad, operazioni speciali, sabotaggi, sanzioni. Ma la Siria resiste, anche grazie a Russia e Iran. E intanto lo Yemen muore nel silenzio, con le armi americane vendute all’Arabia Saudita che bombardano scuole, ospedali, matrimoni.
Oggi è l’Iran a finire nel mirino. Attacchi a siti nucleari civili, sanzioni, provocazioni, minacce dirette. Trump rilancia il sogno neocon di un cambio di regime a Teheran. Ma l’Iran non è né l’Iraq né l’Afghanistan. È una potenza radicata, armata, strategica. E non si inginocchierà. La guerra, anche questa volta, la comincia Washington. E sarà il mondo a pagarne il prezzo.
Intanto gli strumenti cambiano, ma la logica resta: droni, cyberattacchi, destabilizzazioni, colpi di Stato, embarghi. Non c’è più bisogno di dichiarare guerra per fare guerra. Le “missioni di pace” diventano occupazioni. Le “sanzioni” diventano strangolamenti. La “democrazia” diventa imposizione. La libertà, esportata a suon di bombe, diventa un’arma.
Gli Stati Uniti parlano di diritti umani, ma appoggiano regimi repressivi se fanno comodo. Parlano di democrazia, ma hanno imposto governi fantoccio ovunque: dal Vietnam del Sud all’Ucraina. Non c’è un conflitto nel mondo da due secoli a cui non abbiano partecipato, diretto o indiretto. Sono il filo rosso che lega guerre lontane nel tempo e nello spazio. Sono la costante.
Gli Stati Uniti sono una macchina da guerra. Hanno bisogno del conflitto per vivere, per vendere armi, per dominare, per esistere. Il popolo americano è prigioniero di una cultura militarista e paranoica, cresciuto nel mito dell’intervento, educato alla logica del “noi contro loro”. Un popolo senza epica, che ha trasformato la guerra nella propria religione. Chi ha detto che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi? Per gli Stati Uniti è il contrario: la politica è solo la continuazione della guerra con mezzi diplomatici.
Raimondo Schiavone