Blog di Raimondo Schiavone e amici

IL PIANO DI PACE DI TRUMP: LA FREGATURA PERFETTA

C’è un’antica regola nei negoziati di guerra: quando il più forte parla di pace, il più debole deve tremare. È esattamente ciò che è accaduto con il cosiddetto “piano di pace” di Donald Trump per Gaza — un documento che non ha mai avuto nulla di pacifico, ma che ha servito egregiamente due uomini alle corde: lui e Benjamin Netanyahu.

Trump e Netanyahu non reggevano più la pressione internazionale, quella delle piazze, dei movimenti, delle università occupate, dei media indipendenti che per mesi avevano mostrato al mondo il volto vero della guerra: bambini dilaniati, ospedali ridotti in macerie, un intero popolo bombardato e affamato. Quando l’opinione pubblica mondiale comincia a ribellarsi, ecco la mossa dei maestri dell’illusione: cambiare lessico. Da carnefici a “mediatori di pace”.

Il piano di Trump nasce da questo contesto: una mossa disperata, camuffata da iniziativa diplomatica.
In realtà, è una trappola geopolitica costruita su quattro pilastri tossici:

  • Gerusalemme “unita e indivisibile” sotto controllo israeliano;
  • cancellazione di fatto del diritto al ritorno dei profughi;
  • una pseudo “autonomia economica” per Gaza, cioè una prigione con i cancelli dorati;
  • e la legittimazione definitiva dell’occupazione, travestita da compromesso storico.

Dietro la patina di pace si nascondeva la resa: il riconoscimento, da parte del mondo arabo più debole e frammentato di sempre, che la Palestina non avrebbe mai ottenuto giustizia sul campo.

E qui entra in scena Hamas.
Dopo mesi di guerra devastante, di assedio totale e di perdite militari senza precedenti, Hamas non rappresentava più una forza ma un fantasma. Disarmato, isolato e delegittimato anche all’interno di Gaza, era divenuto — suo malgrado — l’utile comparsa del piano Trump-Netanyahu.
Accettare, anche solo tacitamente, quel documento significava sancire la propria resa, la fine di ogni illusione di resistenza armata, e la trasformazione del movimento in un attore politico postumo.

Hamas non ha mai avuto una reale credibilità internazionale, ma in quel momento ha perso anche l’unica cosa che lo rendeva interlocutore: la forza.
E i suoi nemici lo hanno capito.
Trump e Netanyahu hanno costruito il loro “accordo” esattamente su quella debolezza, spacciando al mondo la fine di un ciclo di violenza come un successo diplomatico.

La fregatura è tutta qui: non un piano di pace, ma un manuale di resa unilaterale.
Una pace imposta, che chiede ai palestinesi di rinunciare ai propri diritti fondamentali in cambio di promesse economiche, investimenti esterni e corridoi commerciali gestiti da chi li ha bombardati fino al giorno prima.

Trump lo sapeva bene: il suo obiettivo non era salvare Gaza, ma sé stesso.
Doveva ripulirsi l’immagine in patria, riconquistare il voto evangelico e presentarsi come “uomo di pace” dopo aver favorito le guerre più sporche del Medio Oriente.
Netanyahu, dal canto suo, ne approfittava per riscrivere la storia: da accusato di crimini di guerra a protagonista del “nuovo ordine di stabilità” in Medio Oriente.

Il mondo però, almeno quello libero, non ci è cascato.
Milioni di persone da New York a Roma, da Londra a Buenos Aires, hanno visto in quel piano non un’alba di speranza ma il tramonto della verità.
Perché nessuna pace è reale quando nasce dal sangue di un popolo e dalla resa di chi è stato ridotto al silenzio.

La contraddizione più grande resta quella:
Trump predicava la fine del conflitto, ma consolidava il dominio israeliano.
Parlava di diritti umani, ma negava il diritto stesso alla libertà.
Offriva soldi, ma in cambio della dignità.

Il Trump Peace Plan passerà alla storia non come un’occasione perduta, ma come la più raffinata operazione di ipocrisia geopolitica del nostro tempo.
Gaza non ha bisogno dei piani dei carnefici.
Ha bisogno che il mondo smetta di confondere pace con sottomissione e sicurezza con occupazione.

Solo allora, davvero, potremo parlare di un nuovo inizio.

Raimondo Schiavone 

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