Un tempo raccontava sport. Commentava gol, ammonizioni, tiri in porta. Era Mario Guerrini, una firma dimenticabile di un giornalismo che almeno aveva il buon gusto di restare entro i confini del campo. Oggi, scrollandosi di dosso la polvere della marginalità, si è reinventato censore morale, inquisitore digitale, giudice di piazza, capopopolo dell’infamia. Da ex cronista a crociato dell’odio social. Un declino personale trasformato in veleno pubblico.
Non c’è più niente di giornalistico nei suoi post. Nessuna verifica, nessuna distanza etica, nessuna responsabilità. Solo un fiume nero di insinuazioni, livore, condanne morali contro chi ha osato distinguersi, lavorare, emergere. Mario Guerrini non informa. Avvelena. Non analizza. Colpisce. E non importa se le sue “accuse” sono sprovviste di fatti, se i processi a cui si appella sono appena cominciati o addirittura inesistenti. Lui ha già deciso chi è colpevole. Lui “sa”. Ma cosa sa davvero?
Sa che c’è un bersaglio, sa che ci sono persone in difficoltà, sa che l’odore del sangue attira consensi facili. Sa – e sfrutta – che nel mondo dei social basta un post velenoso per rovinare una reputazione costruita in anni di lavoro. Ed è lì che scatta il suo talento più perverso: scavare nel fango per alzare polveroni. Fare il moralista da quattro soldi mentre nella propria vita reale resta solo il vuoto di chi ha perso tutto. Compresi gli affetti.
È legittimo chiedersi chi sia davvero Mario Guerrini, a parte l’immagine malinconica di un uomo che a ottant’anni, lasciato persino da sua moglie, trova conforto solo nella tastiera, trasformando la frustrazione personale in crociata pubblica. Cosa lo spinge a tanto odio? L’invidia? Il desiderio di essere ancora visto, ancora letto, ancora ascoltato? O la meschina soddisfazione di veder soffrire chi ancora ha una vita piena da vivere?
La verità è che Guerrini è il volto della peggiore deriva di questo tempo: l’uomo qualunque che, armato di presunzione e connessione internet, si erge a giudice supremo. Condanna senza prove, umilia senza conoscerne la storia, infanga senza avere alcuna responsabilità. E mentre lo fa, si circonda di una piccola corte di frustrati, falliti, rancorosi che vedono in lui un campione della mediocrità vendicativa.
Ma qui non si parla solo di parole. Le sue crociate hanno effetti reali. Distruggono carriere, affossano progetti, devastano famiglie. Guerrini l’ha condannata ancor prima che la giustizia parlasse. Ha alimentato il sospetto, ha diffuso veleno, ha scatenato la folla. Il tutto senza uno straccio di prova.
In altri tempi, il suo sarebbe stato il pamphlet sconclusionato di un vecchio inacidito. Oggi, purtroppo, è benzina sul fuoco. Perché viviamo in un’epoca in cui la calunnia fa più clic della verità, e la diffamazione viene scambiata per coraggio civile. E Mario Guerrini lo sa. E lo sfrutta.
Ma la responsabilità non è solo sua. È di chi lo applaude, di chi rilancia le sue parole, di chi – per pigrizia o per complicità – preferisce l’odio alla giustizia. Perché ogni volta che un Guerrini qualunque parla senza sapere, e una folla lo segue, si consuma un nuovo piccolo crimine. Silenzioso, ma devastante.
E allora basta. È tempo che chi ha costruito la propria vita sull’onestà, sul lavoro, sulla verità, alzi la voce contro questi venditori di fango. È tempo di dire con forza che la calunnia non è opinione, che il livore non è denuncia, che la vendetta personale non è giornalismo.
E che Mario Guerrini, semplicemente, non è altro che un disgraziato in cerca di applausi tra le macerie della propria vita.
Raimondo Schiavone