Blog di Raimondo Schiavone e amici

IL DARFUR, I VOLTI, LA POLVERE E IL TEMPO

Era il 2012 quando misi piede per la prima volta in Sudan. L’aeroporto di Khartoum era un grande edificio sabbioso, spoglio e caotico. Il caldo era un presagio: oltre quaranta gradi, la sabbia ovunque, un’aria densa come una promessa infranta. Eppure, dietro quell’apparente immobilità, il paese ribolliva. Si parlava allora di un fragile accordo di pace tra Nord e Sud, quello del 2005 che aveva messo fine a vent’anni di guerra civile. Ma il Darfur, a ovest, era già un inferno.

Partii verso El Fasher pochi giorni dopo, insieme a una delegazione del Centro Italo-Arabo e del Mediterraneo: Talal, Franco, Guglielmo e io. Volevamo capire, documentare, portare un messaggio di solidarietà in una terra dove la guerra sembrava aver cancellato tutto. Il viaggio fu lungo, faticoso, indimenticabile. Già lungo la strada, i segni della devastazione erano ovunque: villaggi bruciati, pozzi distrutti, carcasse di camion militari e tende improvvisate lungo il deserto. Le donne camminavano per chilometri con le taniche d’acqua sulla testa, e gli uomini restavano in silenzio, come se la parola fosse diventata inutile.

Quando arrivammo a El Fasher, la città appariva sospesa tra la vita e la disperazione. Le strade erano affollate di sfollati, arrivati da ovest per sfuggire ai bombardamenti e alle incursioni delle milizie janjaweed. I mercati funzionavano a intermittenza, le scuole erano chiuse, gli ospedali traboccavano di feriti. Ogni sera, il tramonto portava paura: dopo il buio, nessuno usciva più.

Fu in quei giorni che visitammo i campi profughi di Abu Shouk e Zam Zam. Chilometri di tende, un oceano di umanità ferita. I bambini giocavano con palloni di stracci, e ridevano nonostante tutto. Alcuni disegnavano sulla sabbia, altri vendevano piccole cose per aiutare le famiglie. Fu lì che il Darfur divenne per me non una notizia, ma una ferita personale.

Ricordo ancora il silenzio delle notti nel deserto, interrotto solo dai canti delle donne e dal rumore lontano dei pick-up militari. In quelle sere parlammo a lungo tra noi, chiedendoci come fosse possibile tanta indifferenza. Il mondo guardava altrove, eppure lì, in quella polvere, c’erano migliaia di vite sospese.

Fu in quei giorni che nacque “Amal, la bambina delle caramelle”, un libro ispirato alla storia di una bambina incontrata lungo la strada tra Nyala e Kutum. Vendeva caramelle a pochi spiccioli, con un vassoio di latta e un vestito coperto di polvere. Mi guardò a lungo mentre salivo sul fuoristrada, e in quel suo sguardo c’era tutta la dolcezza e la disperazione del mondo. Amal divenne un simbolo: la speranza fragile di un popolo dimenticato.

Nel 2007, a Cagliari, nacque la mostra “I sorrisi del Sudan”, per raccontare con le immagini ciò che le parole non bastavano a dire. Le fotografie restituivano i volti di quei giorni: bambini che ridevano nonostante la fame, donne che ricamavano la vita anche tra le tende dei campi, uomini che cercavano di ricostruire case e pozzi distrutti. Il pubblico scoprì un’Africa diversa: non solo miseria, ma resistenza; non solo guerra, ma dignità.

Poi vennero gli anni della secessione, del 2011, quando il Sud Sudan ottenne l’indipendenza. Il mondo pensò, ingenuamente, che la pace fosse vicina. Ma bastò poco: nuovi scontri nel Darfur, nel Kordofan, a Khartoum. Ogni volta un nuovo generale, un nuovo accordo, una nuova illusione. Quando tornai nel 2015, trovai un paese più povero e più stanco. Amal, o qualcuna come lei, vendeva ancora caramelle. Ma il suo vassoio era più vuoto.

Oggi, nel 2025, vent’anni dopo quella prima missione, il Sudan è di nuovo in ginocchio. La guerra tra le Forze Armate Sudanesi e le Rapid Support Forces ha cancellato tutto: scuole, ospedali, città intere. El Fasher, la città che avevamo percorso a piedi, è ora un campo di rovine. L’ultimo ospedale è stato bombardato. I civili vengono giustiziati nelle strade. Il Darfur è tornato ad essere l’incubo del mondo, ma senza più riflettori.

Eppure, i bambini sono ancora lì. Hanno gli stessi occhi grandi, lo stesso sorriso che sfida la fame. Hanno sete, come allora. Hanno paura, come allora. E nessuno, o quasi nessuno, li guarda più. La geopolitica ha sostituito l’umanità: l’oro del Darfur interessa più della vita di un bambino. Il mondo discute di confini, di rotte commerciali, di alleanze tra generali, ma non vede più le mani piccole che stringono una caramella come fosse un tesoro.

Così si chiude un cerchio amaro. Nulla è cambiato, davvero. Dopo tanti anni, il Sudan resta una ferita aperta del nostro tempo: un luogo dove la guerra ha cancellato la speranza e dove l’acqua è più preziosa del pane. Amal, la bambina delle caramelle, è ormai una donna. Forse è sopravvissuta, forse no. Ma i suoi figli, oggi, sono di nuovo bambini con fame, sete e paura. E il mondo, ancora una volta, guarda altrove.

Raimondo Schiavone

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