In un mondo anestetizzato dall'indifferenza e dalla pornografia della guerra a bassa risoluzione, ogni tanto qualcuno rompe il silenzio. E quando quel qualcuno si chiama Pep Guardiola, uno dei volti più visibili dello sport globale, allora le parole pesano. E scavano. E fanno male. Ma servono.
Durante la cerimonia per il conferimento della laurea honoris causa all’Università di Manchester — tributo al suo straordinario contributo alla città in nove anni di panchina al Manchester City — Guardiola non ha parlato solo di calcio, di trofei, di moduli o pressing alto. Ha parlato di Gaza. Ha parlato di bambini. Ha parlato del dolore che ogni giorno viene oscurato da un flusso di notizie sempre più selettivo e complice. Ha parlato, soprattutto, di noi.
“Quando vediamo bambini e bambine di quattro anni uccisi da una bomba o morire in un ospedale che non è più un ospedale, forse pensiamo che non ci riguardi. Ok, va bene. Possiamo pensarla così. Non ci riguarda. Ma attenzione: i prossimi saranno i nostri. I prossimi bambini di 4 o 5 anni saranno i nostri,” ha detto. Senza enfasi. Senza retorica. Solo verità.
Parole come queste sono ormai un’eccezione nel panorama mediatico e sportivo europeo. Dove ogni calciatore è addestrato a parlare solo di "concentrazione", "spogliatoio", "prossimo match". Guardiola invece ha ricordato a tutti che esiste un campo più grande, e più importante, di qualsiasi finale di Champions League: il campo della coscienza umana.
Non è la prima volta che l’ex centrocampista catalano espone pubblicamente le sue idee politiche e morali, spesso pagando il prezzo dell’incomprensione o della censura. Ma oggi, a Manchester, il suo messaggio ha avuto la potenza di una scossa tellurica. Davanti a un pubblico che includeva accademici, studenti, rappresentanti delle istituzioni, Guardiola ha indicato una verità tanto semplice quanto inascoltata: il dolore degli altri ci riguarda. E se non lo riconosciamo adesso, sarà troppo tardi quando il dolore entrerà dalla porta di casa nostra.
Gaza è un campo di sterminio a cielo aperto, dove l’infanzia viene sepolta sotto le macerie e le madri partoriscono tra il fumo delle esplosioni. Chi continua a sostenere che tutto questo sia “difesa legittima” o “effetti collaterali” ha perso non solo l’umanità, ma anche il diritto di parlare di valori. Guardiola ha colmato un vuoto. E non lo ha fatto da politico, da attivista o da analista. Lo ha fatto da essere umano. Da padre.
E in un’epoca in cui ogni parola viene pesata in base ai like o ai contratti di sponsorizzazione, sentire una figura così visibile dire che "i prossimi saranno i nostri" è un atto di coraggio. È una sirena d’allarme che ci invita a smettere di voltare lo sguardo. Perché se non fermiamo questo genocidio silenzioso, se non spezziamo il cerchio dell’impunità e della codardia, allora sì, i prossimi saranno davvero i nostri.
I bambini di Gaza non sono "altri". Non sono un errore del destino. Sono l’umanità che ci grida contro, che ci chiede conto. E Guardiola, oggi, ha dato loro voce. Con la dignità che spesso manca a capi di governo, ministri, parlamentari europei e "giornalisti" embedded nelle stanze del potere.
Che serva almeno questo. Che un giorno, guardando indietro, potremo dire che qualcuno ebbe il coraggio di parlare quando tutti tacevano. E che le sue parole non sono rimaste inascoltate.
Perché, ricordiamolo: i prossimi saranno i nostri.
Raimondo Schiavone