Il 6 agosto 1945 il presidente americano Harry Truman autorizzò lo sgancio della prima bomba atomica su Hiroshima. Tre giorni dopo, Nagasaki conobbe lo stesso destino. Con un gesto che avrebbe segnato la storia dell’umanità, gli Stati Uniti misero in ginocchio il Giappone e mostrarono al mondo la potenza dell’arma assoluta. Oggi, a ottant’anni da allora, uno spettro simile torna a inquietare le cancellerie internazionali: quello di una guerra totale, irreversibile, travestita da crociata per la libertà.
Il passato non passa mai davvero. È diventato un refrain, uno slogan, un riflesso condizionato dell’Occidente: “esportare la democrazia”. Ma i luoghi dove questa esportazione si è compiuta, sono diventati deserti, fumerie di odio, cimiteri di civiltà. Iraq, Libia, Afghanistan, Siria, Vietnam. Dietro la maschera della liberazione, si sono consumate occupazioni, massacri, destabilizzazioni sistematiche. E oggi, l’Iran rischia di essere il prossimo obiettivo.
Donald Trump – oggi tornato al potere – potrebbe un giorno compiere quel passo estremo? È una domanda legittima, persino doverosa. Non perché sia probabile un attacco nucleare immediato, ma perché i presupposti culturali e politici di un gesto simile stanno di nuovo maturando. Demonizzare l’avversario. Dipingerlo come “regime canaglia”. Negare la legittimità politica di un intero popolo. Non è diverso da ciò che accadde con il Giappone imperiale. O con Saddam Hussein. O con Gheddafi.
Ma l’Iran non è un bersaglio qualsiasi. È una civiltà millenaria. Un attore regionale autonomo, strutturato, con una cultura strategica profonda e un sistema di alleanze capillare. È un Paese abituato alle sanzioni, alla guerra per procura, al contenimento permanente. Ma non è mai stato piegato. Ed è proprio questo che gli Stati Uniti e Israele sembrano non aver calcolato.
L’attacco israeliano ai vertici militari iraniani, le provocazioni continue, la narrativa tossica sull’Iran come minaccia esistenziale… Tutto contribuisce a spingere la situazione sull’orlo del baratro. E Trump, con il suo approccio imprevedibile, potrebbe rivelarsi il detonatore ideale. Come Truman, anche lui potrebbe scegliere la “via più breve” per vincere una guerra che lui stesso ha contribuito a innescare.
Ma oggi non siamo nel 1945. Il mondo è multipolare. La Russia e la Cina non stanno a guardare. I BRICS si consolidano come alternativa all’unilateralismo americano. E l’Iran non è isolato: ha alleati, capacità, volontà. Un attacco atomico, o anche solo una guerra su larga scala, non sarebbe l’epilogo di un conflitto, ma l’inizio di un incubo senza fine.
La storia dovrebbe insegnare qualcosa. Ma se l’unica lezione che gli americani hanno tratto da Hiroshima è che la forza risolve tutto, allora siamo destinati a ripetere l’orrore. Solo che stavolta, il prezzo sarà incalcolabile. Per tutti. Anche per noi. Anche per chi crede ancora che le guerre si combattano “lontano”.
La democrazia non si esporta con le bombe. Si costruisce con il rispetto. E chi oggi invoca l’atomica, anche solo implicitamente, dimostra di non aver capito né Hiroshima, né il mondo che stiamo vivendo.
Raimondo Schiavone