Blog di Raimondo Schiavone e amici

Francesca Albanese, la verità sotto attacco: il report sul genocidio a Gaza e la vendetta americana

Il 1° luglio 2025 potrebbe passare alla storia come il giorno in cui la verità giuridica è finita ufficialmente sotto processo. Non per mano di una corte imparziale, ma sotto la pressione furibonda del governo degli Stati Uniti, guidato da Donald Trump, che ha chiesto formalmente la rimozione di Francesca Albanese dal suo incarico di Relatrice Speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei territori palestinesi occupati. Il motivo? Aver fatto il suo dovere. Aver osato dire l’indicibile, ovvero che Israele sta compiendo un genocidio nella Striscia di Gaza e sta conducendo una politica di annientamento sistematico nei confronti del popolo palestinese.

Il documento firmato da Francesca Albanese, intitolato “Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio”, è una bomba giuridica e politica. Non un volantino ideologico, ma un report dettagliato, costruito su prove, testimonianze, dati verificati, norme internazionali, risoluzioni ONU, convenzioni e trattati. Un documento che smonta pezzo per pezzo la narrazione israeliana di “legittima difesa” e dimostra come l’occupazione si sia evoluta in un meccanismo strutturato di distruzione economica, sociale e fisica della Palestina. Francesca Albanese parla di crimini contro l’umanità, di apartheid, di pulizia etnica. Non lo fa con slogan, ma con il rigore di una giurista che conosce perfettamente il linguaggio e gli strumenti del diritto internazionale.

Nel report si denuncia come la macchina israeliana del controllo territoriale si sia trasformata in un sistema integrato per la disarticolazione totale della società palestinese: dall’agricoltura alle infrastrutture idriche, dalla sanità ai sistemi educativi. Gaza, ma anche la Cisgiordania e Gerusalemme Est, sono diventate campi di sperimentazione di una violenza strutturale che travalica i confini della guerra convenzionale. Il rapporto non si limita a fotografare la tragedia: chiede alla comunità internazionale di non voltarsi dall’altra parte, di nominare le cose con il loro nome.

Ed è proprio questo il peccato capitale della relatrice italiana: aver usato la parola proibita. Genocidio. Parola che gli apparati di potere occidentali vogliono riservare solo ai nemici strategici, mai agli alleati. E così, il governo statunitense ha reagito come un impero messo con le spalle al muro: ha lanciato un attacco frontale alla persona e alla credibilità della Albanese, accusandola di antisemitismo, di sostegno al terrorismo, persino di "guerra economica contro l’Occidente".

Il comunicato della Missione degli Stati Uniti alle Nazioni Unite è un concentrato di veleno propagandistico. Parla di lettere minacciose che la relatrice avrebbe inviato a grandi aziende statunitensi, colpevoli a suo dire di complicità nei crimini israeliani. Ma non sono “lettere minatorie”: sono notifiche legali, atti formali che ricordano alle imprese i loro obblighi ai sensi del diritto internazionale e la possibilità di essere ritenute corresponsabili di violazioni gravi, qualora collaborino o traggano profitto da attività collegate all’occupazione.

Il documento USA, più che una smentita argomentata, suona come un’intimidazione mafiosa: o si rimuove Francesca Albanese, oppure “azioni significative” verranno intraprese contro le Nazioni Unite. Nessuna risposta nel merito. Nessun confronto giuridico. Solo minacce, slogan e accuse infamanti, che rientrano nella strategia classica del “kill the messenger” – distruggi chi porta la notizia, se la notizia è troppo scomoda.

Ma il vero punto è un altro: Francesca Albanese rappresenta oggi l’unica voce autorevole dentro l’ONU che osa dire la verità. Una verità che milioni di persone vedono ogni giorno in diretta, tra le macerie di Gaza, tra i corpi dei bambini dilaniati dai missili, tra le ambulanze colpite dai droni. E allora la sua colpa non è solo ciò che ha detto. È ciò che rappresenta: una donna libera, italiana, giurista, che si è rifiutata di piegarsi alla logica ipocrita delle “due parti”, alla neutralità pelosa che equipara l’occupato e l’occupante, la vittima e il carnefice.

Difendere Francesca Albanese oggi non è un gesto di solidarietà personale. È un atto politico e morale. Significa difendere il diritto internazionale come strumento di giustizia e non come merce negoziabile nei giochi di potere delle grandi potenze. Significa affermare che i diritti umani non possono essere validi a corrente alternata: non valgono meno quando a violarli sono gli “amici”, o peggio ancora, gli “alleati strategici” come Israele.

Se la verità può essere rimossa con un comunicato stampa, se la giustizia può essere silenziata da un’accusa di comodo, allora nessuno è più al sicuro. Francesca Albanese non è sola. E l’Italia dovrebbe dirlo forte, in tutte le sedi. Perché se oggi c’è un nome che rende onore al nostro Paese, è proprio il suo.

Raimondo Schiavone