Il Parlamento iraniano ha approvato una mozione che, se attuata, rischia di avere conseguenze devastanti sull’economia mondiale e in particolare sull’Europa: il blocco dello Stretto di Hormuz. Una scelta estrema, ma perfettamente coerente con la linea della “risposta proporzionata” adottata da Teheran dopo l’aggressione diretta subita dagli Stati Uniti. Uno scenario che fino a ieri sembrava ipotetico, oggi è sul tavolo in forma concreta. E le ricadute rischiano di essere rapide, gravi e dirompenti.
Lo Stretto di Hormuz è una lingua di mare larga poco più di 50 chilometri che separa l’Iran dall’Oman. È il punto di passaggio di circa il 20-25% del petrolio mondiale, in uscita soprattutto dai terminali dell’Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti, del Kuwait, del Bahrein e dell’Iraq meridionale. Ma, soprattutto, è la rotta principale del greggio diretto verso l’Europa. Ogni giorno vi transitano circa 17-20 milioni di barili di petrolio, che alimentano non solo i mercati asiatici, ma anche le raffinerie europee, in particolare quelle di Italia, Grecia, Spagna e Paesi Bassi.
Il blocco di questo corridoio marittimo non significa semplicemente una difficoltà logistica: significa la rottura della catena globale di approvvigionamento energetico. I prezzi del petrolio — già instabili a causa dei conflitti in corso in Medio Oriente e delle tensioni geopolitiche — salirebbero oltre i 150 dollari al barile nel giro di 24-48 ore. Alcuni analisti temono che in caso di blocco prolungato si possa raggiungere quota 200 dollari, con effetti a cascata su gas, trasporti, produzione industriale e beni di consumo.
Per l’Europa, ancora dipendente per circa il 40% dal petrolio proveniente da quell’area, si tratterebbe di una crisi energetica peggiore di quella vissuta con la guerra in Ucraina. I Paesi che avevano sostituito il gas russo con quello qatariota o con il greggio saudita si ritroverebbero senza alternative immediate. L’industria pesante subirebbe contraccolpi devastanti, i costi di produzione aumenterebbero in modo insostenibile, l’inflazione tornerebbe a correre oltre il 6-7% e la BCE sarebbe costretta a scelte drastiche.
Le borse europee, già in tensione per le incertezze politiche internazionali, vedrebbero crolli verticali nel comparto manifatturiero, nei trasporti e nell’energia. Le compagnie aeree alzerebbero i prezzi dei voli del 30-50%. I prodotti alimentari — in parte legati al costo energetico del trasporto e della produzione — subirebbero un rincaro immediato. Una nuova stagione di instabilità sociale sarebbe all’orizzonte, con scioperi, proteste e tensioni sindacali inevitabili.
Tutto ciò senza contare le conseguenze sulle relazioni internazionali. L’Iran, con questa mossa, dimostra di avere ancora una leva di potere enorme, e che le sanzioni, le minacce e i bombardamenti non sono riusciti a indebolirne la capacità di incidere sugli equilibri globali. Se Hormuz si chiude, è l’intera architettura energetica mondiale a vacillare. E l’Europa, in assenza di una strategia energetica indipendente, rischia di pagarne il prezzo più alto.
Ironia della sorte: mentre Washington bombarda e Tel Aviv ringrazia, a pagare sarà il cittadino europeo, che si ritroverà a fare i conti con bollette più alte, benzina alle stelle, salari erosi dall’inflazione e governi incapaci di agire.
Una nuova crisi è alle porte. E questa volta non basterà parlare di “transizione energetica” o “resilienza” per affrontarla. Il blocco di Hormuz non è solo uno scenario militare: è un terremoto economico. E l’Europa, ancora una volta, rischia di svegliarsi troppo tardi.
Raimondo Schiavone