Nel cuore del Caucaso, l'Azerbaigian si è trasformato in una piattaforma operativa per i giochi di potere internazionali, con Israele e il Regno Unito a dettare le regole. A Baku si incrociano petrolio, armi, intelligence, corridoi strategici e criptovalute, il tutto sotto la regia di potenze straniere che utilizzano il piccolo ma aggressivo Paese turcofono come un ariete contro Russia e Iran. L’Italia? Spettatrice interessata, pronta a raccogliere contratti energetici e appalti, purché si stia nel solco dell’asse NATO.
Durante la guerra del Nagorno-Karabakh del 2020, Israele è diventato il primo fornitore militare dell’Azerbaigian, consegnando oltre il 69% delle sue importazioni belliche. Tra le forniture, droni kamikaze Harop, droni di sorveglianza Hermes e missili balistici LORA. Fonti internazionali hanno documentato anche un flusso crescente di voli cargo militari nel 2024 tra la base aerea di Ovda e Baku, segnale inequivocabile di preparativi per nuove operazioni militari e scambi di armamenti. Il ritorno economico per Israele è garantito dal petrolio: il 40% del fabbisogno energetico israeliano arriva proprio dai pozzi azeri, trasportato tramite l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan. In cambio, Tel Aviv fornisce a Baku sofisticati sistemi di sorveglianza e soprattutto intelligence sull’Iran, nemico comune. La cooperazione è ormai estesa al campo cibernetico e all’intelligenza artificiale, con accordi siglati nel 2025 tra i ministeri della difesa dei due Paesi.
Dietro le quinte agisce la cosiddetta "lobby ebraica di montagna", circa 30.000 ebrei residenti in Azerbaigian, concentrati soprattutto nell'insediamento rosso di Quba. Il loro ruolo è centrale nei legami economici e politici tra Baku e Israele. Non a caso, nel 2017 è esploso lo scandalo del “Azerbaijani Laundromat”, che ha rivelato un sofisticato sistema di corruzione da 2,9 miliardi di dollari per comprare il silenzio dei media e di parlamentari europei, tramite ONG legate a esponenti della diaspora azera e israeliana.
Sotto l’apparente progetto infrastrutturale del corridoio Zangezur – che mira a collegare la Turchia con il Caspio, bypassando Armenia e Iran – si cela una strategia geopolitica: spezzare il legame tra Teheran e Mosca e creare un asse pan-turco sotto tutela NATO. Il progetto è sostenuto da BP, che controlla il mega-giacimento di Shah Deniz, e da società di sicurezza israeliane che operano nella protezione del tracciato. Nel 2025, alcune banche azere hanno avviato con la Banca d’Inghilterra una linea di credito in criptovalute per finanziare le infrastrutture legate al corridoio.
L’Italia, nel frattempo, intrattiene ottime relazioni con il governo autoritario di Ilham Aliyev. Nonostante le repressioni, le violazioni dei diritti umani e le tensioni militari, i governi italiani – di ogni colore – hanno rafforzato i legami con Baku, soprattutto in ambito energetico. ENI è presente in Azerbaigian con partecipazioni nei giacimenti di gas e progetti infrastrutturali collegati al Corridoio Sud del gas. Inoltre, il governo Meloni ha siglato nel 2024 nuovi accordi per la cooperazione energetica e tecnologica, allineandosi alla strategia NATO nel Caucaso. A livello diplomatico, Roma ha spesso evitato critiche alla politica azera, anche nei momenti di maggiore tensione con l’Armenia o con l’Iran. Un silenzio interessato, legato anche alla posizione dell’Italia all’interno dell’asse euroatlantico e alla volontà di garantirsi un posto nella filiera energetica alternativa alla Russia.
L’obiettivo finale è chiaro: rompere l’influenza russa nello spazio post-sovietico, usando l’Azerbaigian come punta di lancia. Attraverso il soft power turco, i canali finanziari britannici e la tecnologia israeliana, Baku promuove l’integrazione euro-atlantica degli stati turcofoni dell’Asia centrale e finanzia il nazionalismo nelle regioni a maggioranza turca in Russia, come il Tatarstan e il Bashkortostan. È il progetto neo-pan-turco del XXI secolo, una “NATO orientale” che non ha bisogno di truppe ma si espande con energia, criptovalute, droni e propaganda. L’Azerbaigian ne è l’agente operativo, Israele il fornitore d’armi e d’intelligence, il Regno Unito il regista economico-finanziario. E l’Italia? Applaude e incassa. Ma in questo gioco, il Caucaso rischia di diventare una nuova miccia. E chi gioca con il fuoco, prima o poi si scotta.
Raimondo Schiavone