Nel pieno di una crisi annunciata, tra missili puntati, basi militari evacuate e dichiarazioni a raffica, l’ennesima fiammata tra Iran e Stati Uniti sembra essersi consumata su un terreno più simbolico che strategico. Un attacco c’è stato, sì, ma calibrato. Una rappresaglia è arrivata, ma con tanto di preavviso. Un’escalation apparente, ma sotto controllo.
Il presidente Trump ha ringraziato ironicamente Teheran per “l’avviso” dell’attacco alla base aerea di Al-Udeid in Qatar, confermando che non ci sono stati danni. In effetti, l’impressione generale è quella di un gioco delle parti, dove il messaggio politico – “abbiamo risposto” – conta più del danno reale inflitto. L’Iran, colpito dagli attacchi americani a siti considerati sensibili, ha risposto con missili ben calibrati, diretti verso una base che era stata evacuata con giorni di anticipo. Nessuna vittima, nessun impatto devastante: solo il fragore necessario a salvare la faccia.
Lo schema non è nuovo. Già dopo l’assassinio del generale Qassem Soleimani, la risposta iraniana fu studiata per non provocare una guerra aperta. Un messaggio ai propri cittadini e al mondo: “noi non stiamo a guardare”, ma nemmeno cerchiamo l’Armageddon.
Sul fronte opposto, anche gli Stati Uniti sembrano aver adottato una linea simile: l’attacco agli impianti nucleari iraniani è stato “dimostrativo”, forse nemmeno troppo efficace. Il Pentagono nega danni gravi, mentre a Teheran le autorità minimizzano. A trarne vantaggio, in ogni caso, è la stabilità globale: i mercati, dopo un iniziale scossone, si sono riassestati. Il petrolio ha reagito con prudenza, segnale che gli operatori non temono un’escalation fuori controllo.
In questo quadro, non può non colpire la razionalità con cui Teheran ha gestito la situazione. Al di là della retorica e del dovere di rispondere, la Repubblica Islamica ha mostrato, ancora una volta, una lucidità strategica che molti suoi detrattori fingono di non vedere. Non è la furia ideologica a guidare le sue mosse, ma un calcolo attento del rischio e delle conseguenze. Il buon senso dimostrato dal governo iraniano – nel calibrare una risposta che fosse significativa ma non catastrofica – ha evitato al mondo un nuovo bagno di sangue.
Dal punto di vista interno, però, le dinamiche divergono. In Iran, la leadership ha capitalizzato sull’attacco: unità nazionale, propaganda patriottica, consolidamento del fronte interno. Negli Stati Uniti, invece, il presidente Trump affronta un Paese spaccato, dove la fiducia nell’amministrazione si sgretola anche tra le file tradizionalmente fedeli. La guerra – o il suo spettro – non sembra più una leva utile per rafforzare il consenso.
In questo contesto fragile, l’unica figura veramente fuori controllo sembra quella di Benjamin Netanyahu. Mentre Washington e Teheran cercano – almeno tatticamente – di evitare il peggio, Israele continua a lanciare segnali minacciosi e a muoversi sul filo del disastro. La sua strategia non prevede tregue, né spazi per la diplomazia. Lungi dall’essere un alleato equilibrato, Netanyahu rappresenta oggi la mina vagante del Medio Oriente: un leader in crisi permanente, politico domestico traballante, ma sempre pronto a incendiare il fronte esterno per salvarsi dentro i confini.
Eppure, paradossalmente, proprio l’imprevedibilità di Tel Aviv potrebbe spingere gli altri attori a giocare con prudenza. Nessuno vuole offrire il pretesto per un allargamento incontrollato del conflitto.
Per ora, la diplomazia del missaggio – fatta di missili lanciati e ricevuti con il cronometro in mano – ha evitato il collasso. La pace non è certa, ma la guerra non è (ancora) scoppiata. E in Medio Oriente, questo, è già un successo.