Dodici anni dopo l’inizio della guerra, l’America rientra a Damasco. E lo fa nel modo più arrogante: issando la propria bandiera nella residenza dell’ambasciatore Usa, in un quartiere blindato della capitale siriana. Protagonista della scena Tom Barrack, imprenditore miliardario vicino a Trump, oggi promosso a “inviato speciale” per la ricostruzione siriana. Una foto, una cerimonia, un discorso imbellettato sulla pace. Ma sotto la vernice della diplomazia resta una verità inaccettabile: la Siria che conoscevamo non esiste più.
Quel che resta oggi è un campo di battaglia geopolitico, un esperimento velenoso partorito da logge, intelligence, interessi energetici e multinazionali travestite da ong. Della Repubblica Araba di Siria sopravvive il nome sulle mappe. La sostanza, invece, è stata cannibalizzata da chi ha usato il caos per ridisegnare il Medio Oriente a proprio vantaggio.
Gli Stati Uniti, che ora parlano di “stabilità”, sono gli stessi che per anni hanno saccheggiato il petrolio siriano. Sotto il pretesto della guerra all’ISIS, Washington ha mantenuto truppe e contractor nel nord-est del Paese, dove si trovano i principali giacimenti petroliferi. Un’occupazione mai autorizzata, mai dichiarata, ma sistematica e redditizia. Migliaia di barili rubati ogni giorno, trasportati con camion cisterna scortati da mercenari, verso l’Iraq e poi chissà dove.
Nel frattempo, la Siria affondava nella miseria: niente carburante, niente medicine, niente elettricità. Le famiglie facevano la fila per un litro di gasolio, mentre il “bottino energetico” finiva nelle mani dei nuovi colonizzatori.
Oggi, con un colpo di teatro, gli stessi saccheggiatori si ripresentano a Damasco con la maschera dei benefattori. Parlano di “ricostruzione”, di “dialogo”, di “nuove relazioni”. Ma non chiedono scusa, non restituiscono nulla, non riconoscono nemmeno il crimine che hanno commesso: aver distrutto un Paese sovrano in nome di un ordine mondiale tossico.
Nel frattempo la Siria è stata spartita: un pezzo ai russi, un pezzo agli iraniani, un pezzo agli americani e uno ai turchi. Nel nord-ovest, le bande jihadiste sopravvivono grazie a finanziamenti esterni. Lo Stato siriano esiste a fatica, in bilico tra la resistenza e la sopravvivenza, costretto a subire embarghi, inflazioni, crollo dei servizi e diserzione diplomatica.
Questa non è una “normalizzazione”: è un funerale travestito da protocollo. La bandiera americana non segna una pace, ma una resa. E non quella dei siriani, ma della comunità internazionale che ha permesso tutto questo.
Tom Barrack può anche sorridere e tagliare nastri, ma la memoria del popolo siriano non si cancella con una foto. E la storia non perdona chi si presenta da salvatore dopo aver fatto il ladro.
Raimondo Schiavone