New York, Palazzo di Vetro. È uno di quei momenti che restano impressi nella memoria collettiva. Un momento in cui la diplomazia si arrende all’umanità, in cui i discorsi preparati cedono il passo alla disperazione.
Riyad Mansour, ambasciatore della Palestina alle Nazioni Unite, è scoppiato in lacrime durante il suo intervento al Consiglio di Sicurezza. Un’aula gelida, spesso assuefatta all’orrore, è stata improvvisamente attraversata da un’emozione cruda, irriducibile, umana.
“È insopportabile”, ha gridato Mansour battendo i pugni sul tavolo. Poi si è interrotto, ha abbassato la testa tra le mani e ha singhiozzato: “Scusatemi… ho dei nipoti. Vedere quello che succede in Palestina senza fare niente è intollerabile per qualunque essere umano”.
Lacrime vere, parole che pesano più di qualsiasi comunicato.
Perché Gaza è un inferno quotidiano. Perché non si tratta più di politica, ma di carne, sangue, bambini.
E chi rappresenta quella terra devastata ha il dovere — e oggi il coraggio — di gridare la verità dove troppi tacciono.
Mentre l’ambasciatore parlava, fuori da quell’aula si contavano i cadaveri sotto le macerie. I dati aggiornati raccontano di oltre 36.000 morti palestinesi, in gran parte civili, da ottobre a oggi. Ma nessuna cifra può raccontare il peso delle grida di un bambino sotto un bombardamento, o la devastazione di una madre che stringe un corpo senza vita.
Nel silenzio complice dei governi occidentali, nelle ambiguità di parole vuote come “equilibrio” o “diritto di difesa”, un diplomatico ha deciso di gridare, piangere, chiedere perdono per l’impotenza.
Quello di Mansour non è stato solo un intervento. È stato un grido lanciato dentro un mondo sordo.
Una supplica rivolta non più agli Stati, ma alle coscienze.
Perché chi ancora giustifica il massacro, chi ancora chiude gli occhi, non ha più scuse.
E oggi, grazie a quelle lacrime, nessuno potrà dire “non sapevo”.
Raimondo Schiavone