Blog di Raimondo Schiavone e amici

ASHURA, IL GRIDO DI KARBALA TRA LE ROVINE DEL MEDIO ORIENTE

Il giorno 10 di Muharram, conosciuto come Ashura, non è solo una ricorrenza religiosa per il mondo sciita. È un grido secolare che attraversa i secoli e arriva, potente, fino alle macerie di Gaza, ai villaggi bombardati del sud del Libano, ai quartieri assediati di Damasco e alle piazze infiammate di Baghdad. Ashura è la memoria viva del martirio dell’imam Hussein, nipote del profeta Maometto, ucciso con i suoi settantadue compagni nel deserto di Karbala nel 680 d.C. Un atto di resistenza contro l’ingiustizia e la tirannia, che da oltre tredici secoli alimenta l’identità e il sentimento politico‑spirituale del mondo sciita.

In questo 2025, però, Ashura assume una valenza ancora più drammatica e, al tempo stesso, simbolica. Si celebra infatti a pochi giorni da una tregua armata tra Iran e Israele, dopo dodici giorni di una guerra-lampo, in cui Teheran ha colpito duramente obiettivi israeliani e ha subito a sua volta devastanti raid. Una pausa instabile, sospesa tra la diplomazia e il prossimo round di violenze, come fosse solo un cambio d’aria in trincea.

Nel frattempo, Israele ha intensificato i bombardamenti nel sud del Libano, in particolare contro le roccaforti sciite vicine a Hezbollah. I droni colpiscono centri abitati come Bint Jbeil, Aita al-Shaab e le colline di Marjayoun. La popolazione civile è allo stremo, e i fedeli che domani si riuniranno per le processioni del lutto sanno bene che ogni preghiera si mescola con l’odore del sangue e della polvere da sparo. Non è una ricorrenza rituale: è una rievocazione vissuta sulla propria pelle.

La situazione in Siria è ancora più ambigua e dolorosa. Dopo la caduta di Bashar al-Assad nel dicembre scorso, il nuovo governo – dominato da forze sunnite radicali e da gruppi sostenuti da Turchia e Qatar – ha marginalizzato e discriminato la minoranza sciita. Gli sciiti siriani, come gli alawiti e gli ismailiti, vivono ora sotto sorveglianza, molti sono stati epurati da incarichi pubblici, e in alcune province sono vittime di vere e proprie pulizie settarie. In molte zone, i cortei di Ashura non potranno svolgersi apertamente, per timore di rappresaglie. In un Paese che fino a pochi anni fa proteggeva queste minoranze, la loro esistenza è diventata clandestina.

In Iraq, dove la celebrazione ha il suo cuore pulsante a Karbala, centinaia di migliaia di pellegrini stanno già affluendo, sfidando le minacce terroristiche dell’ISIS e le tensioni politiche interne. Le autorità hanno rafforzato i controlli, ma la paura di attentati è reale. Tuttavia, come sempre, la devozione supera il rischio: Ashura è un patto di fedeltà che ogni fedele rinnova ogni anno, in piedi sotto il sole, col cuore gonfio di dolore e orgoglio.

Perché il significato profondo di Ashura è questo: rifiutare la resa anche quando tutto sembra perduto, combattere l’ingiustizia anche sapendo che si sarà sconfitti. Hussein non ha vinto sul campo, ma ha trionfato nella memoria e nel cuore di milioni di uomini e donne. E proprio oggi, tra le rovine di Gaza, tra le ambulanze del sud Libano, tra le case bruciate di Sayyida Zaynab, il suo messaggio torna a vivere con una forza ancora più potente.

Il mondo sciita non è solo un mondo religioso. È una identità collettiva, politica, sociale, che si è formata nei secoli sulla base di persecuzioni, discriminazioni e resistenza. Oggi quella identità è di nuovo sotto attacco, non solo con le armi, ma con l’isolamento diplomatico, la propaganda occidentale e le nuove strategie di destabilizzazione. Le lacrime di Ashura, in questo senso, non sono mai solo per Hussein. Sono per ogni bambino bruciato a Gaza, per ogni madre sepolta sotto le macerie in Libano, per ogni fedele sciita che domani non potrà nemmeno versare le sue lacrime in pubblico in Siria.

Ashura 2025, dunque, è molto più di una commemorazione religiosa. È una battaglia simbolica. È il momento in cui il mondo sciita ricorda a se stesso – e al mondo intero – che il martirio non è una fine, ma l’inizio di una resistenza. E che nessuna potenza – né Israele, né l’America, né i regimi sunniti compiacenti – potrà mai cancellare quel nome: Hussein. Martire. Guida. Rivoluzionario.

Domani a Karbala si piangerà. Ma quelle lacrime, come sempre, preparano la prossima alba.

Raimondo Schiavone 

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